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Le Mummie non conoscono il Fengshui: osservazioni su La tomba dell'imperatore Dragone

 

Il terzo episodio della saga “La Mummia”, diretto da Rob Cohen e uscito nello stesso anno delle Olimpiadi di Pechino, si ispira alla Cina e a quello straordinario Esercito di Terracotta di cui alcuni degli 8000 esemplari sono arrivati fino a noi nel corso del loro recente tour europeo. Effettivamente mancava questo pezzo d'Oriente nella geografia archeologica dell'epica hollywoodiana da Indiana Jones in poi, e la trovata dei due eserciti di revenants (i soldati dell'imperatore contro i contadini e gli schiavi sepolti durante i lavori di costruzione della Muraglia Cinese) che si fronteggiano nel gran finale è indubbiamente di grande impatto emotivo, un impatto accresciuto anche dalle riprese accelerate.

  Non mi soffermerò in questa sede a commentare plot, dialoghi ed effetti speciali, ma vorrei spendere due parole su un aspetto del film che ha deluso le mie aspettative. Parlo dei rari riferimenti alla cultura cinese e taoista, che emergono pochissimo e in modo superficiale. Non mi riferisco agli acrobatici duelli in aria (che hanno cessato ormai di stupirci fin da Grosso guaio a Chinatown ) bensì agli accenni al Tao, alla teoria del Cinque Elementi e al fengshui: accenni talmente rari che forse valeva la pena evitarli addirittura.

  Il Tao compare indirettamente attraverso un gioco di parole fra Yang e Yin, il primo dei quali suona omofono al nome del generale che vuole riportare in vita l'imperatore Han. I Cinque Elementi, invece, compaiono ben due volte, in quanto l'Imperatore Dragone è celebre perché ha il potere di padroneggiarli; peccato che l'ordine in cui vengono citati non sia quello che ci aspetteremmo secondo la tradizione (ciclo della Creazione), e che inoltre a un certo punto si materializzino sotto forma di piccole sfere che, nelle mani pur abili dell'imperatore, sortiscono l'effetto abbastanza comico di un'esibizione da giocoliere. Lo stesso vale per quanto riguarda il fengshui: nella scena in cui ci si riferisce alla “bussola fengshui” infatti ci aspetteremmo un luo pan mentre ci troviamo di fronte a una ciotola d'acqua contenente un ago magnetico che invece di puntare verso nord punta verso sud. Non ci si addentra cioè in una materia che, se approfondita, avrebbe potuto dare molta più sostanza al film.

  Tutto il resto, dallo yeti (creatura leggendaria tibetana generalmente avvistata da osservatori occidentali, specie britannici, a partire dal magistrato R.R. Hodgson) allo shangri-là (invenzione letteraria tutta occidentale dello scrittore inglese James Hilton), è indubbiamente impressionante e affascinante; ma è difficile, per uno spettatore che conosca un minimo della cultura cinese, ritrovarne le atmosfere e le energie autentiche.

  Considerando che la Cina ci ispira spesso, che lo vogliamo o no, suggestioni inquietanti – lavoro nero minorile, latte contaminato, pena di morte – è comunque già tanto che nel film, fra i vivi, ci siano almeno due cinesi “puri di cuore”, visto che i protagonisti americani sono tutti buoni tranne uno. La percentuale non ha bisogno di commenti. Ma questo è un altro discorso…

(a.c.)

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