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Come un fiume che scorre

 

Nel suo nuovo pamphlet Contro l'architettura (edito da Bollati Boringhieri 2008, pp. 117), il noto antropologo culturale Franco La Cecla (autore, tra gli altri, di Mente locale , 2004, e Perdersi , 2005) esprime la sua amarezza e il suo dissenso nei confronti di un'architettura che, lungi dall'essere una scienza dell'abitare, è diventata sempre più una disciplina di moda lontana dall'interesse pubblico. La preoccupazione dell'autore riguarda soprattutto la perdita della consapevolezza che la città è in prima istanza il territorio su cui agisce l'inconscio collettivo, luogo di appartenenza e di conflitti, arena d'incontro, confronto e dialogo con il vicino di casa, ma anche con il diverso e lo straniero.

  Dopo un lungo capitolo dal titolo provocatorio (“Perché non sono diventato architetto”) in cui racconta i “reumatismi” e gli scricchiolii delle tubature delle case di New York e definisce il grattacielo “il disadattato per eccellenza” (pp. 16-17), citando tra l'altro la celebre espressione di Richard Sennett “flesh and stone”, carne e pietra, per indicare la funzione dell'abitare (p. 22), La Cecla passa in rassegna varie realtà urbane, da Tirana alle banlieues parigine, da Barcellona a New York, dalle “New Towns” inglesi alle Disneylands dello shopping, commentando ora l'eccesso di hubris che sottende alcuni piani di riqualificazione urbana, ora la follia di certi interventi che negano sapienze millenarie (vedasi il progetto Unisco a Lalibela in Etiopia).

  Fra tutti i fallimenti, l'autore si sofferma con maggiore rammarico sulla “piaga” delle periferie, condannate alla bruttezza, alla chiusura, all'emarginazione e troppo spesso definite sommariamente “non luoghi” dello scenario contemporaneo, quando in realtà giocano un ruolo di protagoniste insieme alla città tutta. Ripensare le periferie significa ripensare le città, e viceversa: e questo significa anche, per esempio, evitare di scaricare sulle persone “la responsabilità di rendere abitabile un ambiente disumano” (p. 73), o smettere di vedere l'immigrazione come un progetto clandestino e considerarlo invece “una delle risorse essenziali perché i centri non muoiano” (p. 75).

  La Cecla torna poi su un concetto a lui caro, quello della “mente locale” che molto deve al genius loci e che non è poi lontana dallo spirito del fengshui : “l'abitare resiste alle più feroci repressioni e persino entro logiche di sfratto, eviction, relocation finisce per riprodurre il tessuto di conoscenze e il patrimonio simbolico, conscio e inconscio, che serve a vivere in un posto, con un posto” (p. 114).

  Il volumetto si chiude su una metafora e su un auspicio. La metafora (ispirata a Guimaraes Rosa) è quella del fiume: l'autore vede la città come “luogo di circolazione”, ovvero come un fiume che scorre, “un movimento che riesce a guardare se stesso, a fermarsi per guardarsi scorrere, a ricominciare ad andare per sentirsi parte di un flusso” (pp. 116-117); l'auspicio è l'invenzione di una nuova competenza, ovvero la formazione di nuovi esperti che possano essere definiti “visionari concreti, scienziati dell'umano” (p. 117). Che prestino, cioè, una maggiore attenzione alla visione, ma nel segno della concretezza; alla scienza, ma nel segno dell'umano. (a.c.)

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